Quello che mi ha stupito di più è stato il silenzio. L’ho sentito diverse volte, pesante e presente, durante la lezione. Inusuale, aggiungerei, perché in quella classe anche mentre parlo e spiego qualche brusio di fondo c’è sempre.
Ma oggi no, oggi sembravano tutti attenti, qualcuno più di altri: sarà stato forse il tema del brano che abbiamo letto, sarà stato forse che questo tema lo sento molto mio e dalle mie parole e dagli stimoli ragazzi hanno percepito qualcosa di più e di diverso rispetto alle solite nozioni e ragionamenti. Forse hanno percepito quello che dovrebbe esserci e sarebbe bello ci fosse in ogni lezione scolastica: sentimenti e partecipazione. Ingredienti che, senza bisogno di lieviti aggiunti, portano al coinvolgimento di ragazzini di prima superiore magari anche lontani e in difficoltà rispetto a certi argomenti importanti, ma che sanno cogliere quando uno più grande di loro ne parla con trasporto.
Tutto è nato un po’ per caso. Pochi giorni fa ho avuto modo di incontrare e confrontarmi con una realtà familiare molto bella e di ragionare poi, per contrasto di situazioni, sull’assenza o sulla debolezza di questa struttura sociale. Ne sono venuti di conseguenza pensieri sulle relazioni in generale (amorose, affettive, di amicizia…anche lavorative) e sulla condizione dell’uomo come singolo. Discorsoni.
Poi la lezione da fare e l’antologia aperta quasi a caso. Sì, perché come spesso mi accade arrivo a lezione un po’ in affanno e qualche volta mi fido troppo della capacità di improvvisare. L’argomento che stiamo trattando in narrativa è la letteratura realista e il testo di oggi era di Cesare Pavese. Lo so, non andrebbe detto ma, al di là di qualche brano antologico, non ho mai letto davvero Pavese, tantomeno questo estratto della nostra narrativa. Grave? Forse sì, anzi per un laureato in lettere il “forse” è troppo indulgente, ma se portassi un peso per ogni autore importante che non ho mai letto…
La sua storia però è nota, è quella di un uomo di lettere, in tutti i sensi, tra letteratura e editoria. Un animo tormentato, una sensibilità spiccata, una consapevolezza profonda dell’importanza dei legami umani. Proprio questi legami sono al centro del testo che abbiamo letto oggi, l’incipit dell’ultimo romanzo dello scrittore piemontese, “La luna e i falò“, del 1950.
"C'è una ragione per cui sono tornato in questo paese, qui e non invece a Canelli, a Barbaresco o in Alba. Qui non ci sono nato, è quasi certo; dove sono nato non lo so; non c'è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch'io possa dire «Ecco cos'ero prima di nascere». [...] Chi può dire di che carne sono fatto? Ho girato abbastanza il mondo da sapere che tutte le carni sono buone e si equivalgono, ma è per questo che uno si stanca e cerca di mettere radici, di farsi terra e paese, perché la sua carne valga e duri qualcosa in più di un comune giro di stagione".
A parlare così è il protagonista del romanzo, Anguilla, un quarantenne nato da genitori sconosciuti e cresciuto nelle Langhe da una coppia che lo aveva adottato solo per avere due braccia da usare nel lavoro e qualche soldo di indennità dall’ospedale di Alessandria.
Dove sono nato non lo so; non c’è da queste parti una casa né un pezzo di terra né delle ossa ch’io possa dire «Ecco cos’ero prima di nascere»
Dopo aver trascorso tra i campi e le colline l’adolescenza, Anguilla se ne va e gira il mondo (gli Stati Uniti in particolare), ma un giorno torna in Italia e va a visitare i luoghi della sua infanzia. E qui nascono, per contrasto anche in questo caso, le sue riflessioni. Anguilla conosce già la sua storia familiare, sa di non avere radici e allo stesso tempo sente che vorrebbe averle: vorrebbe riconoscersi in un luogo, sentirlo come casa, avere dei morti da andare a trovare, una storia (propria e di famiglia) da raccontare.
E qualcuno a cui raccontarla.
Invece, quando torna al paese, il luogo che più incarnava i suoi ricordi di bambino (un boschetto di noccioli) non c’è più, rimpiazzato da campi di cereali. Ma la natura dell’uomo, riflette Anguilla, è “di farsi terra e paese“, di mettere radici, di avere una famiglia (quella d’origine o quella creata), di costruire una rete sociale, di lasciare un’eredità (che siano figli, opere, ricordi oppure tutto questo insieme): un segno del nostro passaggio che faccia durare la nostra carne oltre il limite, oltre la “stagione” imposta dalla natura.
Anguilla sa di non avere radici e allo stesso tempo sente che vorrebbe averle: vorrebbe riconoscersi in un luogo, sentirlo come casa, avere dei morti da andare a trovare, una storia (propria e di famiglia) da raccontare. E qualcuno a cui raccontarla.
E lui, che una famiglia vera non l’ha mai avuta, capisce che se un uomo non mette radici basterà un soffio di vento della vita per spazzarlo via. Questo non solo nel momento della morte, dietro la quale non resterebbe nulla se non una lapide, ma anche nel corso della vita, quando i rovesci della sorte, le scelte sbagliate, l’imperizia l’indecisione un momento di debolezza o di malattia possono scuoterci come un violento maestrale le cime dei noccioli. Che, se non hanno radici forti, cadono e muoiono: genitori, amici, un amore e dei figli che diano un senso ultimo all’esistenza…è la rete che l’uomo deve avere per sopravvivere alla vita, a se stesso e al tempo.
"Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. [...] Possibile che a quarant'anni, e con tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora che cos'è il mio paese?"
Ma cosa potrà mai trovare Anguilla al suo ritorno? Lui che sa di essere un “bastardo” che non conoscerà mai i suoi veri genitori, che non ha più la famiglia adottiva e non ha saputo o voluto costruirsi o mantenere una famiglia tutta sua? Lui, cittadino del mondo, sempre “un piede sulle passerelle“, si ritrova a quaranta e più anni senza legami veri e forti.
Possibile che a quarant’anni, e con tutto il mondo che ho visto, non sappia ancora che cos’è il mio paese?
La sua vita, le considerazioni di Pavese, anche se nate nel contesto degli anni Cinquanta sono di estrema attualità, anzi lo sono ancora di più nella società del nuovo millennio, in cui si è portati a curare sempre meno le radici e sempre più le fronde, l’esteriorità che gli altri vedono. In cui la famiglia risulta sempre più indebolita, in cui si è portati ad essere sempre più singoli e sempre meno comunità, a non avere un “paese”, in tutti i mille significati che questa parola può avere. E tutto va bene, finché non si leva un vento più forte e questo vento non porta con sé tempesta. E si rischia di crollare, noccioli isolati senza radici.