Lo so, sembra incredibile, eppure è così. Ci sono, sono in mezzo a noi: persone con le quali studiamo o lavoriamo, che magari apprezziamo o alle quali addirittura vogliamo bene…persone che, è difficile accettarlo, non amano alla follia la trilogia del Signore degli Anelli di Peter Jackson.
Come ciò sia possibile ancora non me lo spiego, ma ho imparato a convivere con questo pensiero. Ed è anche per emendare questo loro vizio originale che, ogni volta che passano uno dei tre capitoli in tv, io mi fermo a guardarlo, legato mani e piedi allo schermo, dimentico di tutto quello che avrei da fare. Oppure, in qualche afflato di nostalgia, di solito durante le vacanze di Natale (in questo caso quelle di Pasqua), me li vado a rivedere tutti. E le emozioni sono sempre le stesse.
Ironia a parte, a distanza di tanti anni la trasposizione cinematografica del capolavoro di Tolkien resta un film “assoluto”: una storia incredibile supportata da attori, regia ed effetti che non a caso hanno fatto incetta di Oscar. Il mio preferito è da sempre il secondo capitolo, “Le due torri”, dove la Compagnia dell’Anello si è sciolta per prendere strade diverse e dove c’è la prima, esaltante battaglia, quella del fosso di Helm: tanta azione, adrenalina, scontri…e l’alba del quinto giorno che porta la salvezza.
Ma è un altro il passaggio su cui memoria e attenzione mi cadono in queste ore. Un passaggio che scavalla tra il primo e il secondo capitolo, quando il gruppo di avventurieri diretto a Mordor decide di passare per le miniere di Moria, l’antica dimora dei nani.
La Luna brillava ora sulla grigia faccia della rupe. […] Lentamente, sulla superficie sfiorata dalle mani dello stregone, apparvero pallide linee, simili a esili vene d'argento nella pietra. […] “Le porte di Durin, Signore di Moria. Dite, amici, ed entrate”.
Le titubanze dei personaggi ad entrare in quel luogo così tetro risultano fondate: le miniere dei nani sono diventate un grande cimitero, un luogo di oscurità dove il male aleggia. L’essere umano però anela la luce e la Compagnia si muove per attraversare la montagna…ma dal buio emerge un Balrog, un’ombra di fuoco, un demone che viene dal profondo. E il solo Gandalf può affrontarlo sull’ultimo, stretto ponte che li separa dalla salvezza.
“Non puoi passare! […] Sono un servitore del Fuoco Segreto, e reggo la fiamma di Anor. […] Torna nell'Ombra! Non puoi passare”. Il Balrog non rispose. Il fuoco in lui parve estinguersi, ma il buio crebbe. Avanzò lentamente sul ponte, e d'un tratto si eresse ad una immensa altezza, estendendo le ali da una parete all'altra. […] Dall'ombra, una spada rossa si rizzò fiammeggiante.
Lo scontro tra lo stregone e il suo incubo è raccontato da Tolkien (e raffigurato da Jackson) in maniera epica e si conclude con i duellanti che precipitano, lottando, per centinaia di metri nelle profondità della terra, verso una morte che appare certa. Chi ha letto il libro o visto il film sa che Gandalf tornerà dagli abissi e tornerà diverso da come era prima.
Non mi ero mai soffermato più di tanto su questo passaggio, così simbolico e così carico di significati, molto più attratto com’ero dall’azione e dalle battaglie. Ma l’eco delle celebrazioni pasquali me lo fa leggere in maniera diversa. Non essendo un esegeta del Signore degli Anelli probabilmente dirò cose non nuove e sicuramente banali: chiedo scusa anticipatamente.
Tutti noi, come Gandalf nelle miniere di Moria, incontriamo nella vita il nostro Balrog. Talvolta, come accade allo stregone grigio, è un mostro che emerge dalle tenebre del nostro passato, dal buio della nostra anima: un male che abbiamo portato dentro magari a lungo senza accorgercene, una paura recondita, una fragilità nascosta che quando attraversiamo un ponte stretto della nostra esistenza arriva a minacciarci, a toglierci quell’equilibrio che più ci servirebbe per arrivare sani e salvi dall’altra parte. E invece, prova su prova, il nostro Balrog si erge davanti a noi, spaventoso e terribile, e ci costringe a misurarci con lui.
“Tu non puoi passare!”, urla Gandalf il Grigio brandendo la spada e sollevando la luce del suo bastone. E noi? Noi che armi abbiamo per combattere il nostro mostro dell’oscurità?
La prova può giungere nei momenti più diversi della nostra vita: può minare situazioni di stabilità e sicurezza o compromettere ulteriormente situazioni già delicate. In ogni caso le armi che abbiamo non sono molte: c’è la nostra forza interiore, tanto per cominciare, la convinzione di potercela fare con i nostri mezzi. E se questa mancasse è importante poggiarsi sulla propria “compagnia dell’anello”: famiglia, amici, persone che ci vogliono bene, per qualcuno anche la fede…consapevoli che, se nel film la battaglia sul ponte di Khazad-dûm dura pochi minuti, la nostra battaglia può durare giorni, settimane, mesi.
E se il Balrog di Gandalf ha le sembianze di un colossale mostro di fiamme e tenebre, il nostro potrebbe avere quelle di un lutto, di una malattia, della perdita del lavoro, di un anno scolastico andato male o della fine di un’amore, di una nostra insicurezza interiore e chissà quante altre ancora, tante quante sono i casi della vita.
Gandalf combatte, cade e si rialza: precipita negli abissi, lo si crede morto, ma vince la sua lotta con il demone. Un duello estenuante, terribile, in cui deve dare fondo a tutte le sue risorse. Una prova che lo trasforma, diventa il Bianco, acquisisce una nuova consapevolezza che gli fa affrontare il resto della vita in modo diverso. E così accade anche fuori dalla Terra di Mezzo, nel nostro mondo: la vita ci mette davanti grandi prove che possono temprarci o abbatterci, ma che in ogni caso ci trasformano. E non sempre in meglio. Quando ti affacci sull’abisso puoi resistere e avere la forza di fare un passo indietro oppure cadere…allora scende il buio, al termine del quale non è detto che torni la luce.
Come Gandalf riemerge dalle profondità della terra rinnovato e consapevole, anche noi dopo le nostre battaglie, le delusioni, gli schiaffi presi possiamo riaffacciarci alla vita più determinati e consapevoli di ciò che è bene per la nostra esistenza, di ciò che vogliamo, di ciò che è davvero importante. E forti di questo “status” possiamo cercare di dare un senso diverso ad una fase di vita nuova. Senza crederci stregoni bianchi, senza superpoteri. E riprovare a costruire qualcosa di buono, per il tempo che ci è concesso.
Ma può anche accadere, bisogna essere sinceri, che la battaglia ci ferisca mortalmente, che le ferite (come accade a Frodo per quella subita a Colle Vento) non guariscano mai e ci accompagnino per tutta le vita. Può anche accadere poi che il Balrog vinca, che sia più forte di noi, che ci costringa alla resa…e allora? Che fare?
Non bisogna avere paura di ciò che viene dopo la vita. O meglio, la paura è umana, la prova anche Gesù Cristo nei giorni della sua Passione. Ma anche quando il nostro viaggio sembra concluso, dice Gandalf, in realtà non è la fine…
“Finita? No, il viaggio non finisce qui. La morte è soltanto un'altra via: dovremo prenderla tutti. La grande cortina di pioggia di questo mondo si apre e tutto si trasforma in vetro argentato. E poi lo vedi...”. “Cosa, Gandalf?...vedi cosa?” “Bianche sponde e al di là di queste un verde paesaggio, sotto una lesta aurora...” “Beh, non è così male...” “No, non lo è...”.