Morte, lutto, dolore. Nostalgia, melanconia, mania. Ma anche luce, Giulia (la prof. della superiori), Stefano (il cantante che lo ha segnato) e Alaska, l’anziano cane che lo attende a casa come fosse Ulisse che torna a Itaca dopo il suo lungo viaggio: è stato piacevole, anche se non facile (emotivamente e intellettualmente) seguire il “monologo” di Massimo Recalcati, che oltre ad un grande psicoterapeuta si è rivelato essere un abile oratore, capace di rendere con relativa semplicità concetti che semplici non sono, accompagnando le parole con una voce sempre avvolgente e una mimica essenziale, perfetta per non togliere luce alle parole.
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Parole e luce, appunto, ingredienti e titolo del suo ultimo libro “La luce delle stelle morte”. Non conoscevo Recalcati se non di fama, per averlo visto di sfuggita qualche volta in tv e aver intercettato (ma mai letto davvero) suoi articoli sulla carta stampata. Me lo sono trovato sotto l’albero di Natale, in questo ultimo Natale così particolare, in cui è mancata una vera “famiglia”, ma nel quale ho trovato persone che non mi hanno fatto sentire solo, che mi hanno fatto stare bene.
In effetti quando mio cugino mi ha regalato questo volumetto non ho subito capito se mi volesse bene o meno…beh, la mia storia familiare con il lutto non è proprio memorabile e regalarmi un saggio su lutto e nostalgia non è stato facile da capire. Ma poi l’ho fatto e ho apprezzato il suo pensiero.
Sì, perché Loris sa che porto una cicatrice (due, in verità) piuttosto mal suturata e credo sia stato il suo modo di provare a fornirmi un ago e un filo sterili. E questa sera sentire Recalcati sul palco del Ponchielli, dopo averlo letto nelle settimane passate, è stato sicuramente “disinfettante”. L’ho trovato molto umano, per nulla distaccato e anzi apparentemente coinvolto sul piano emotivo quando ha fatto esempi di vita vissuta in prima persona e attraverso i suoi pazienti.
Il tema del lutto e della nostalgia non è certo dei più leggeri e anche Recalcati ci ha riso su, promettendo al pubblico un finale meno cupo di quanto non fosse stato l’inizio. Sì, perché il nero, l’oscurità hanno dominato nel suo discorso: d’altronde quando si pensa alla morte non si pensa a colori. E di fronte a questo grande mistero che è la vita che finisce, lo psicanalista ha preso a prestito pensieri e parole di colleghi, di filosofi, di letterati e anche di personaggi del cinema. Hannah Arendt, ad esempio, e la sua descrizione della morte come una “cosa” che “è sempre prematura, è sempre in anticipo, arriva sempre troppo presto”. Un momento, quello della morte, che per l’uomo non è un momento finale: lo è per i fiori, per le piante, per i nostri cani che non ne hanno contezza, non la attendono, forse la temono se violenta, ma non hanno percezione dell’arrivo di quella naturale.
Per l’essere umano invece la morte non è l’ultima nota, ma una sinfonia di sottofondo che accompagna tutta la vita dal primo vagito. Sì perché, ha spiegato Recalcati, morire non significa solo smettere di vivere: significa perdere qualcosa. O qualcuno. Per sempre. E allora è morte staccarsi dal seno materno, è morte un’amicizia tradita, è morte un amore che finisce. E tutte queste perdite fanno di noi gli uomini e le donne che siamo. Siamo fatti di parole: quelle che abbiamo ascoltato e che hanno “inciso” la nostra vita. Dai genitori quando eravamo bambini, da un maestro, da un amico…Ma siamo fatti anche dagli incontri o meglio da ciò che abbiamo fatto negli incontri che abbiamo fatto: siamo responsabili di come questi incontri sono andati e di dove ci hanno portato, di come li abbiamo vissuti o meno. E infine siamo fatti dei nostri morti, di ciò che abbiamo perduto. Non solo i defunti, sia chiaro: i progetti naufragati, gli ideali dissolti, le persone smarrite,…siamo fatti di perdite.
Morire non significa solo smettere di vivere: significa perdere qualcosa.
O qualcuno. Per sempre
E la morte, intesa in questo senso lato, è un trauma fatto di due vuoti. Uno riguarda il corpo e sono gli abbracci, le parole, i profumi che non sentiremo più, che ci privano di un “luogo” accogliente e familiare dove stare. L’altro vuoto si crea dentro di noi, perché quando l’altro se ne va un pezzo di noi se ne va con lui e crea un’assenza (altra parola sempre presente nel corso della serata).
E come risponde l’uomo ai lutti che la vita gli mette davanti?
Spesso lo fa con la melanconia. Una reazione patologica, tossica, che pietrifica il tempo sempre nello stesso istante di disperazione, che ci fa perdere il senso dell’esistenza, che blocca: “La mia vita è ingombrata dalla sua assenza”, ha raccontato Recalcati citando un suo paziente, spiegando come l’assenza sia la forma più ingombrante della presenza di qualcuno nella nostra vita. Un concetto così complicatamente elementare da spiazzare quando ci si sbatte il muso.
L’altra reazione al lutto è quella maniacale, fatta di negazionismo a oltranza, rifiuto di vedere capire e accettare quello che è avvenuto, nella prosecuzione di una vita apparentemente normale nella quale, però, i nodi non si sciolgono e alla fine bloccano tutto.
Per questo esiste una terza via, quella giusta, quella del “lavoro del lutto”, che è molto diverso dalle reazioni emotive descritte prima: è quella fase (spesso lunga, certamente difficile) che divide e congiunge il tempo della perdita da quello della separazione, i due momenti di inizio e di fine dell’elaborazione del lutto. Nel mezzo ci deve essere un lavoro, con le sue regole e il suo mansionario.
Ci vuole tempo, perché non esiste lutto rapido.
Ci vuole dolore, perché non esiste lutto senza sofferenza.
E ci vuole memoria, perché non esiste lutto che non porti con sè qualche ricordo.
Facile? Nient’affatto…del lutto non ci libereremo mai del tutto, il reset completo è impossibile. Resterà qualcosa di incompiuto, ma chi saprà “lavorare” bene ritroverà leggerezza e con essa quel mondo che in qualche modo era perduto, dal quale ci si era allontanati. Nella sua incompiutezza, poi, il lutto può diventare anche una risorsa nel momento in cui produce una sana nostalgia. Non rimpianto, non rammarico, ma nostalgia: il dolore (algos) del ritorno (nostos), un sentimento intriso di gratitudine, illuminato da quella “luce che scaturisce da chi non è più con noi, come la luce delle stelle morte”, che arriva sulla Terra e ai nostri occhi milioni di anni dopo la dissoluzione degli astri che la generavano. E che noi continuiamo a guardare ancora oggi, mano nella mano con la persona che amiamo oppure soli, immersi nel silenzio del cielo.
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